Racconti Monumentali – Il Duca bianco Sigismondo
Vedo passare i forestieri e i leccesi, in piedi su questo piedistallo dal 1905, in quest’opera così
fortemente voluta dalla mia Adele, lei determinata e devota, che dalla Torino sabauda venne in Terra d’Otranto, per stare accanto al suo “bel duca bianco” e stringermi la mano nel mio ultimo respiro.
Così volle che i miei conterranei mi riconoscessero i meriti del mio zelo e dell’amore per la mia patria. Di quell’amore che stringo in una mano, nelle pagine delle mie Memorie che raccontano dei moti del 1848, del mio arresto, il processo, gli undici anni di carcere e l’esilio.
Una vita di lotta, la mia, malgrado la nobiltà del mio casato mi consentisse di vivere di agi nell’avita dimora del mio castello di Cavallino.
Ci fu, di fatto, grande meraviglia tra i leccesi quando lessero il mio nome a firma di una proclamazione del Circolo Patriottico Salentino: la mia famiglia vantava titolo e nome tra i più antichi e illustri di Terra d’Otranto, eppure io, in età ormai non più giovanissima, avevo abbandonato i miei studi di storia e di archeologia, oltre alla tranquillità del paese natìo, per unirmi a quel manipolo di arditi cospiratori, che incuranti dei rischi e pericoli ai quali si esponevano, tenevano viva, nella provincia salentina, l’idea della patria libertà.
Perché? Commenterete voi oggi, come già facevano i leccesi in quei tempi.
Rispondo a voi, come già risposi a loro nelle mie Memorie. Con gli anni andai ad affezionarmi alle opere generose, nonché verso il bello e il buono, e crebbe in me una certa avversione contro ciò che mi pareva ingiusto e prepotente, e tale sentimento mi trascinò inevitabilmente nel campo avverso al dispotico governo borbonico.
Venuto meno alla sua parola, re Ferdinando aveva ordinato quella repressione del 15 maggio 1848 insanguinando le vie di Napoli, e il resto del Regno non ne rimase indifferente. Per queste ragioni fui fiero cospiratore insieme ai miei amici, un aristocratico tra la borghesia portatrice del vessillo della libertà per tutte le province meridionali, per una patria unita.
Fui poi prigioniero, per le medesime ragioni, e poi scrittore di ricordi politici.
Nisida Ischia Procida Montefusco Montesarchio sono scritte in lettere di bronzo alla mia sinistra, sul plinto in marmo su cui mi ergo, per affetto e memoria dei leccesi e del sindaco Giuseppe Pellegrino. Non vi lasciate ingannare, poiché cadrete di certo in fallo se immaginate quei nomi come luoghi delle mie nobili villeggiature. Non luoghi di ozio e delizia, ma di tenebra, dove fui recluso proprio per il mio ardito e ostinato spirito patriottico a difesa e custodia delle guarentigie costituzionali, condannato a trent’anni di ferri. Non posso dimenticare quanto ho visto nelle carceri della Regia Udienza di Lecce, la commozione che ancora provo nel ripensare all’amico di Gallipoli, Epaminonda Valentino, gentile e colto, di modi distinti e piacevole favellatore, di carattere fermo e di propositi irremovibili. Egli spirò tra le mie braccia, reclamando un boccone d’aria pura, spezzato dal suo debole cuore, malgrado lo avesse sempre animato lo spirito di un combattente.
Lo scultore Antonio Bortone da Ruffano mi ha voluto ritrarre come ancora oggi i passanti possono vedermi, in questo monumento al centro della piazzetta che porta il mio nome, a guardare il fianco del Palazzo Sozy y Carafa, dove per qualche tempo ci sono stati gli uffici delle Poste, ma dove in passato io mi ebbi a prodigare per l’Educandato per giovinette che vi ebbe sede, avendo maturato il convincimento che dall’educazione della donna comincia quella dell’uomo, e che nei luoghi dove le donne restano trascurate, gli uomini riescono meno educati, meno morali, e meno inciviliti.
Fu quella una nuova battaglia nella quale non mi tirai indietro. Ho sostenuto senza riserve il fallimento delle Suore della Carità nel loro monopolio sull’istruzione delle fanciulle della borghesia e del patriziato salentini, ritenendo l’educazione dei chiostri non in linea con i tempi moderni e pertanto capace di generare solo alunne saccentelle, insipide, orgogliose, indifferenti alla patria, bigotte, superstiziose, incapaci di reggere il governo di una casa, e di guidare i propri figli. Son le lettere, le scienze, le cognizioni delle belle arti, che rendono amabile la persona, è la coltura del cuore e dell’intelletto quanto un padre doveva desiderare per la propria figlia e non di farne un orpello.
Perdonatemi, continuo a divagare in questi miei ricordi, ma sin dal principio ho dichiarato che la mia vita è stata tutta un seguirsi di battaglie, e ad alcuna di esse mi sono sottratto. Ero detenuto a Montefusco quando, nel 1854, per intercessione di Nicola Caputo, vescovo di Lecce, ottenni la proposta di grazia, ma sdegnai questo privilegio, fedele ai miei compagni, per condividerne in egual modo la sorte. I nomi di molti di loro sono stati riportati dal Bortone alla mia destra, sul fianco del plinto marmoreo; i loro nomi, insieme al coraggio delle loro idee, rimangono così fermi nel tempo, insieme al mio.
Sono ritto qui sopra, con la mano sinistra poggiata su una sedia e nell’altra le mie Memorie, che porgo al visitatore che si vorrà soffermare ad ascoltare la mia storia, che è anche la storia della mia terra, per la quale mi sono fatto faticosamente difensore. Ed è così che forse mi ha immaginato il Maestro Bortone nel fermare la mia figura nel bronzo, in un momento significativo della mia vita che andava verso il suo compimento.
Nel pomeriggio del 23 agosto 1889, nelle sale del Museo Provinciale, poste nell’ala orientale del Palazzo dei Celestini, fui onorato dalla presenza di Sua Maestà Re Umberto I, venuto in città per una breve visita con il figlio per prendere parte alla cerimonia di inaugurazione di un monumento dedicato al padre Re Vittorio Emanuele, il fautore dell’Italia Unita, una scultura di Eugenio Maccagnani collocata di rimpetto alla barocca Chiesa di Santa Chiara.
Fu un incontro di commozione quello che ebbi con il nostro Re, e come non potrei ricordare la franchezza dell’affetto e del sorriso del sovrano, che, affrettando il suo passo, corse innanzi a tutti per abbracciarmi, prima di appartarci in una delle sale. Non ho mai raccontato a nessuno ciò che ci siamo detti in privato, questo sarà uno di quegli accadimenti che ho preferito tenere per me, nelle mie memorie intime e segrete.
Nulla riferii neanche a Cosimo De Giorgi, quel dì testimone discreto e che un giorno avrebbe portato avanti quel cammino a cui avevo dato principio. Ma l’onore della visita della Maestà Umberto non ho voluto cadesse nel dimenticatoio e quindi sotto la firma del re e dei suoi accompagnatori, sull’albo dei visitatori del museo, commentai io stesso. Tutto ammirarono e io non risparmiai le spiegazioni.
Di fatto, terminate le mie peregrinazioni per le terribili carceri e passato il tempo da esule, feci ritorno in Terra d’Otranto ed eletto deputato fui assiduo alle sedute della Camera parlamentare della nuova Italia, per poi ritirarmi nel mio castello di Cavallino e riprendere i vecchi cari studi di storia e archeologia, insieme alla ricerca di antichi cimeli di queste terre. Ebbi così occasione di mettere insieme una collezione di medaglie, monete e statuette, di terrecotte e oggetti di bronzo e ferro, che furono classificati dunque in quel Museo che i leccesi vollero portasse il mio nome. E morendo legai a esso il poco rimastomi di quel che fu un gran patrimonio: dal teschio del mio glorioso antenato Kiliano di Lymburgh agli abiti e alla catena da galeotto, che avevo ottenuto dal mio ultimo carceriere per un pugno di monete.
Il ricordo della durezza dei fatti della vita si fa però più lieve se penso al mio soggiorno a Torino. In
seguito alla liberazione dalle carceri di Montesarchio e all’esilio a Londra, dopo un viaggio travagliato e avventuroso, eccomi, nella primavera del 1859, nella città dei portici, la Mecca, la Gerusalemme, la città santa degli Italiani. Lì per il tempo che mi trattenni frequentai il salotto della baronessa Olimpia Savio-Rossi, che a rara bellezza univa virtù eroiche e talento poetico, e proprio in quel salotto, già divenuto precocemente bianchissimo negli anni di prigionia, incontrai la figliola della padrona di casa.
Adele era un fiore appena schiuso, che con mesto sorriso e dolce compassione ascoltò il primo abbozzo delle mie Memorie, quando mi pregarono di leggerlo nel circolo della famiglia Savio.
Ella mi amò per le mie sventure e io l’amai per la pietà che ne ebbe. Repressi però ogni manifestazione del mio grande effetto e scelsi piuttosto di esserle fedele amico: da una parte era d’impiccio la differenza d’età che correva tra noi, e d’altro canto non avrei potuto accoglierla come degna sposa nella mia casa avita a causa di un patrimonio che si era ridotto a pochissima cosa. Mi ritirai nella solitudine di Cavallino, senza quasi più allontanarmi dal castello, con le epistole di lei a ragione di conforto per il mio cuore.
E fu proprio lei, Adele Savio, ad accorrere al mio letto, quando mi ritirai dalla vita terrena nel giorno in cui a Lecce la celebrazione del santo patrono accendeva di luci, musica e festa la Cattedrale e le vie della città fino a piazza Sant’Oronzo.
Era il 26 agosto 1895, e nacqui il 22 gennaio 1811. Sono Sigismondo Castromediano di Lymburgh, duca di Morciano e marchese di Cavallino.
di Sara Foti Sciavaliere
Illustrazioni di Lilith Chevalier
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Inauguriamo oggi la rubrica del blog di The Monuments People, “Racconti Monumentali” con il patriota, archeologo e letterato Sigismondo Castromediano che qui si narra a partire dall’opera celebrativa in suo onore, nell’omonima piazzetta di Lecce.
A lui, che ha fondato e diretto la Commissione di Archeologia e Storia Patria, è intitolato il Museo Provinciale di Lecce, il più antico museo pubblico di Puglia.
Bibliografia
-A.L.Giannone-F.D’Astore (a cura di), “Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura” – Atti del Convegno Nazionale di Studi, Mario Congedo Editore, Galatina, 2012.
-M.A.Marcellan (a cura di), “Cara Adele, Caro Sigismondo. Millerose fu cominciamento di un sogno…”
Carteggio Savio-Castromediano (1859-1905), Mario Congedo Editore, Galatina, 2018.
-S.Castromediano, “Scritti di storie e di arte”, Editrice Salentina, Galatina, 1996.
-G.Gigli, “Sigismondo Castromediano”, A.F. Formaggini Editore, Genova, 1913.
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