LA FOCARA IN PUGLIA: IL BENVENUTO AL CARNEVALE
C’è una tradizione italiana sentita in modo particolare nel nostro amato Mezzogiorno, festeggiata con canti, danze, rituali liturgici e piena di tanta speranza per l’avvenire: è la Fòcara.
Per quello che rappresenta credo seriamente che ripetere il rituale sia davvero necessario e catartico per esorcizzare il travagliato periodo che l’intera Nazione sta attraversando dal 2020.
Ma andiamo con ordine: scopriamo insieme cos’è la Fòcara e a quale Santo è legata.
Ogni anno, precisamente il 17 gennaio, si festeggia Sant’Antonio Abate, il protettore dei nostri amici animali domestici e non (tanto da essere raffigurato assieme ad un maialino che al collo reca una campanella) e di coloro che lavorano a contatto col fuoco, dunque i pompieri. Inoltre, egli viene venerato anche come potente taumaturgo, capace di guarire da malattie orribili, come l’herpes zoster, ossia il famoso Fuoco di Sant’Antonio.
Secondo la tradizione, la Chiesa in questa giornata benedice gli animali e le stalle, ponendoli sotto la protezione del Santo. Successivamente, come segno di purificazione, si accende un falò, ossia il “falò di Sant’Antonio”: questo non è solo un segno purificatore, ma è anche un rito di passaggio e di fecondazione.
Questo rituale affonda le sue origini in epoca pagana, quando si accendevano questi fuochi purificatori e segnavano la transizione dai duri mesi invernali a quelli più miti della primavera, benedicendo la terra, i raccolti, il risveglio della vita. In special modo, questi rituali in Puglia sono accompagnati da diverse celebrazioni, la più nota delle quali è quella della Fòcara (termine dialettale salentino che indica un falò) di Novoli e di cui è stato perfino girato un documentario dal National Geographic.
La fòcara non è altro che un’enorme torre di fascine di tralci di vite. Solo gli anziani pignunai (da pignu , cioè pino, che sta ad indicare la forma conica che i contadini davano al grano raccolto in covoni) conoscono le antiche tecniche per erigere fòcare alte a volte fino a 25 metri.
La devozione a Sant’Antonio in questo paese (Novoli) nasce fin dal 1664 e si caratterizza appunto per la grandezza della fòcara che viene accesa da uno spettacolo di fuochi d’artificio.
Dal 16 al 18 gennaio si svolge una suggestiva processione, chiamata l’intorciata, al seguito della statua del santo e durante la quale i devoti portano dei grandi ceri.
Ogni anno, i costruttori di questa enorme pira, scatenano la loro fantasia dando forme e dimensioni diverse, ma sempre grandiose e spettacolari, aprendo un varco centrale inferiore (la cosiddetta galleria) che l’attraversa per far passare in processione la statua del santo.
Ancora oggi vi è l’usanza di raccogliere la cenere della fòcara, o dei tizzoni, e conservarli come reliquie o utilizzarli per riscaldare casa.
Ma non esiste ovviamente solo il falò di Novoli; in diversi centri della Puglia, tra cui tanti altri salentini, sentono ancora viva questa tradizione: basti pensare a Turi, a Rutigliano, a Biccari, a Seclì, a san Marzano di San Giuseppe, in provincia di Taranto, che è uno tra i falò più antichi in Italia; o a Brindisi, dove le parrocchie fanno costruire e accendere la fòcara nelle piazze dei diversi quartieri cittadini. Proprio in questo contesto si procede alla santa liturgia e alla benedizione dei nostri amici animali; subito dopo, tra la musica, le danze, il buon cibo e i fuochi d’artificio, si accende la fòcara.
Quest’anno forse, per via della pandemia, la cerimonia sarà molto più compassata e con presenza di fedeli contingentata, ma quello che a mio modesto parere si deve fare è questo: non bisogna mai lasciare il passo allo sconforto e ricordare sempre quali sono le nostre origini e le nostre tradizioni, affinché si possa celebrarle con più enfasi quando finalmente ritorneremo alla normalità.
Le prelibatezze salentine della Fòcara e del Carnevale.
In questo clima di festa, in cui si dà il benvenuto al Carnevale, non può mancare dell’ottimo cibo locale: gnocchi con il baccalà, ortaggi, vino, frise, pettole con baccalà, tonno o acciughe, lu pane de Sant’Antoni, vino, la scapece (alici condite con aceto, pangrattato e zafferano, secondo un’antica ricetta araba). Queste le pietanze tipiche del giorno di penitenza, ovvero del 17 gennaio. Il giorno successivo si va a ruota libera con formaggi, latticini, carne alla brace e carne in brodo.
Per quanto riguarda le prelibatezze dolciarie, durante questa festività e per tutto il Carnevale, ve ne sono molte che la caratterizzano, come ad esempio: le castagnole (bocconcini di pasta fritta e passati nello zucchero); purcidduzzi (piccoli dolcetti fritti ricoperti di miele, frutta candita, codette; dolce particolarmente ricco di grassi in vista della Quaresima durante la quale si effettuano digiuni); le chiacchiere o frappe o bugie. Queste ultime affondano le loro radici al tempo degli antichi Romani: erano dei dolcetti a base di uova e farina ed erano chiamati “frictilia” perché fritti nel grasso di maiale e venivano preparati durante i Saturnalia, ovvero ai Saturnali che corrispondono al nostro Carnevale. Nell’antichità, questa festività dedicata al titano Saturno e al suo insediamento all’interno del tempio, si apriva con fastosi banchetti durante i quali i commensali si scambiavano doni o strenne, e si effettuavano sacrifici. In questa occasione, avveniva davvero una cosa buffa: l’ordine sociale era sovvertito e gli schiavi si ritrovavano uomini liberi (o almeno solo durante questa festività), mentre i domini divenivano schiavi. Veniva, peraltro, eletto un princeps che vestiva una bizzarra maschera dai colori sgargianti (come ad esempio il rosso, il colore degli dei). Con questo travestimento ci si identificava con una divinità degli Inferi, forse Saturno o Plutone protettori non solo delle anime dei defunti, ma anche delle campagne e delle messi.
La ricetta dei “frictilia” è giunta sino a noi, certo con qualche variante familiare e regionale, ma pur sempre arrivata sulle nostre tavole, e vi riporto di seguito quella che si tramanda all’interno della mia famiglia.
RICETTA DELLE CHIACCHIERE:
INGREDIENTI
- 250 gr di farina 00;
- 1 uovo;
- scorza di limone;
- un pizzico di sale;
- ½ cucchiaino di lievito per dolci;
- 40 gr di olio di semi di girasole o 30 gr di burro;
- 80 gr di zucchero;
- 20 gr di acqua (o al suo posto potreste versarci l’anice o il limoncello);
- 20 gr di vino bianco
PROCEDIMENTO
Su una spianatoia mescolare insieme tutti gli ingredienti e lavorare l’impasto finché non si forma una palla liscia e compatta. Avvolgere la pasta in una pellicola e lasciarla riposare per 30 minuti in frigo. Trascorsi i 30 minuti si esce la palla e la si adagia sulla spianatoia debitamente infarinata per non far attaccare l’impasto. Stendere la pasta fino a farla diventare davvero molto sottile e ritagliarla, aiutandosi con una rotella tagliapasta, in tanti rettangoli. Volendo, ogni rettangolo può essere inciso all’interno. A fine operazione, riporre i vari rettangoli in una leccarda ricoperta di carta forno e infornare, oppure friggerle direttamente in olio bollente.
COTTURA:
FRITTE: quando vedete che il colore è dorato potete uscirle dall’olio e posarle in un piatto ricoperto di carta assorbente.
Variante al FORNO
VENTILATO: 180° per ca. 7 minuti
STATICO: 200° per ca. 10 minuti
A fine cottura, e dopo averle lasciate raffreddare, potete spolverarle con zucchero a velo.
E con queste friabili prelibatezze, vi auguro un buon Carnevale, leggero e senza pensieri come queste chiacchiere.
Fabiana Ribezzi
Paolo Laku Ph
Complimenti per il bell’articolo, anche nelle nostre campagne in Veneto si usava accendere dei falò e benedire gi animali e le stalle ne l giorno di Sant’Antonio Abate ma falò così grandi e artistici non ne ho mai visti!
È molto bello mantenere vive e ricordare le tradizioni popolari.
Mia moglie ha trascritto la ricetta dei “crostoli” da provare.
Grazie!