La torre e il Mago di Soleto: Matteo Tafuri, il Doctor parisiensis, tra mito e superstizione

La torre di Soleto attigua alla Chiesa Madre è una meravigliosa opera d’arte, descritta: “delicata
come un fiore, con la purezza maestosa delle linea, con la trama simbolica delle sculture, con
l’altezza del vertice”. Fu nel 1397 che Raimondello Orsini del Balzo, dopo aver edificato a Galatina
la Basilica di Santa Caterina, ne commissionò la costruzione ad un artista locale, il maestro Francesco Colaci di Surbo, per innalzarla nel centro dei suoi domini quale prova tangibile della sua potenza, quasi regale, e del suo amore per l’arte. Tuttavia quel sogno che voleva sfidare i tempi, non fu ben compreso dai suoi contemporanei e nemmeno nel secolo seguente.

Il Salento nel ’400 e sui primi del ’500, con l’unica eccezione di individualità fuori dai comuni paradigmi, è attraversato da folle che, cresciute nella violenza delle armi e nell’ignoranza, in ogni manifestazione di scienza e di arte, che colpisse la loro attenzione, vedevano soltanto un intervento divino o diabolico.

È per le medesime ragioni che i cittadini di Soleto attribuirono nome e doti di Mago al compaesano Matteo Tafuri, spirito strano e bizzarro, nato nel 1492; vissuto fino a tarda età, ramingo nel mondo, per poi morire in patria nel 1582. Il Tafuri si era laurato alla Sorbona, conosciuto tra i letterati del tempo col nome di “Mattheus soletanus doctor parisiensis”. Egli fu medico e poeta, filosofo, teologo, astrologo, chimico, matematico e botanico; sappiamo che è stato anche autore di otto libri “De misteriis naturalis” in cui dettò le leggi naturali della magia, dei sogni, della chiromanzia, della rabdomanzia, seppure delle sue opere non è pervenuta nessuna.
Inoltre dalle cattedre degli Atenei di Parigi e di Salamanca insegnò le sue sovvertitrici teorie
scientifiche e filosofiche, le stesse che gli diedero fama e persecuzioni.

Nel 1550, piuttosto malandato in salute, già avanti negli anni e con una solida fama di medico, astrologo e negromante, si ritirò a Napoli. Nel 1560-’70, nel rigido clima religioso della Controriforma, ebbe tuttavia qualche fastidio con l’Inquisizione, e rientrerà quindi in Puglia, nel 1570, al seguito del marchese Ferrante Loffredo, Governatore di Terra d’Otranto.
L’anno seguente, mentre era di ritorno dalla vittoriosa battaglia di Lepanto, l’arciduca don Giovanni d’Austria sbarcò a Gallipoli e, prima di ogni cosa, volle salutare il vecchio scienziato nella sua casa di Soleto, dove abitava poveramente ma con dignità.

A Soleto Matteo Tafuri trascorre la vecchiaia, sdegnoso e in solitudine, vivendo e vestendo come i filosofi greci, esercitando per amor del prossimo l’arte della medicina. E sull’architrave di una finestra della sua abitazione aveva fatto incidere il distico: “Umile so et umeltà me basta/dragon deventerò se alcun me tasta”, espressione del suo bizzarro e ormai insofferente carattere.

Molte furono comunque le leggende che fiorirono intorno al Mago di Soleto. C’era chi narrava che in una notte di Natale l’uomo avesse assistito contemporaneamente a tre messe, a Roma, a Santo Stefano di Campostella e al suo paese; mentre altri raccontavano che in un’altra notte avesse fatto trovare alcune persone, con le quali conversava, nude in cima al campanile. E poi ancora alcuni sostenevano che sette demoni tenesse chiusi in una fiala e che per essi esercitasse sette arti
liberali. Tuttavia ancora più assurda la voce secondo la quale il Tafuri viene ritratto mago nemico di mago, facendo crescere sulla fronte di Pietro Barliario, un paio di corna talmente grandi, che
quello non poteva più ritrarre la testa dalla finestra da cui si sporgeva (pare che fosse stata una delle doti di Barliario, quella di far spuntare le corna sulla testa di chi gli era antipatico): non è
trascurabile il dettaglio che il Barliario è di per sé una figura semi-leggendaria, un medico e
alchimista di Salerno, studioso di testi di magia della tradizione araba, vissuto però tra l’XI e il XII secolo, quindi non contemporaneo del Tafuri.

Una trama sottile tuttavia lega le fantasiose narrazioni intorno a questi due personaggi. Di fatto, stando alle tradizioni popolari, l’opera più celebre del Mago salernitano fu la costruzione, in una sola notte di tempesta e con l’aiuto dei demoni, dell’acquedotto medioevale tuttora esistente nella città campana, un’opera imponente da impressionare non poco i salernitani, la cui fantasia ne attribuì la costruzione a una mano “diabolica”.

E da questa breve divagazione torniamo al nostro “Doctor parisiensis”, del quale secondo la leggenda la più grande opera di magia fu la costruzione della torre di Soleto.  Si narrerebbe che «in una notte di bufera, mentre vegliava nel suo studio misterioso, dove piede umano, oltre il suo, non si era mai posato, tra le fiale, i lambicchi, le vecchie pergamene, il Mago ebbe un sogno diabolicamente superbo: volle innalzare sulla spianata, che si estendeva innanzi alla casa, il più bel monumento di pietra che fosse mai al mondo esistito, una torre alta e sottile e delicata come un fiore, che con la sua trama simbolica delle sculture, con l’eleganza della sua forma, con la sommità del vertice sfidante il cielo e il tempo, avesse mostrato ai viventi e ai venturi la sua arte magnifica e la sua infinita sovrumana potenza.
Chiamò, con un cenno, il mondo invisibile a raccolta: e dagli abissi tenebrosi salirono i diavoli al suo comando e da Benevento legioni di streghe e di versiere convennero. E sorse così, sotto i suoi ordini, la torre di Soleto, in una notte, mentre il vento urlava, mentre la pioggia piangeva un suo lugubre pianto, mentre le streghe febbrilmente intessevano e ricamavano la trama delle
sculture, mentre schiere di demoni alati, al lume dei lampi, trasportavano i capitelli, le cornici, le colonne, gli architravi istoriati.
Già quasi completa era la torre, già la cupola si iniziava, già quattro diavoli trasportavano gli ultimi massi scolpiti, che dovevano finire l’opera del Mago, il Sogno più grande di Matteo Tafuri, quando il gallo cantò. E al canto del gallo, l’incantesimo fu rotto; ed i quattro diavoli, curvi sotto il peso dei quattro massi, restarono così, come tuttora si vedono, trasformati in grifoni, sogghignanti,
doloranti, cariatidi ai quattro angoli, tra il secondo e il terzo ripiano della Torre.» (N.De Simone-
Paladini, in “Cronache Salentine”, 14 ottobre 1930).

 

 

L’ignoranza e la superstizione medievale avevano fuso – e confuso – nella figura di Matteo Tafuri le “tre cose davvero belle e davvero grandi” in Soleto: il nobile e valoroso Raimondello Orsini Del
Balzo, il “Doctor parisiensis” precursore dei tempi e la più bella opera d’arte che si erge ancora
aggraziata e misteriosa nel cuore del borgo della Grecìa Salentina.
La verità sulla costruzione della torre di Soleto è quella storicamente attestata, riportata anche
all’inizio di questo articolo, che vede la datazione dei lavori sul finire del XIV secolo, quasi cento anni prima che il Mago di Soleto nascesse in quell’umile casa non molto distante dall’ombra della Guglia di Raimondello. La fascinazione della leggenda talvolta però è difficile da sradicare, e così i nomi di Matteo e Raimondello convivono e aleggiano intorno alla storia della torre soletana.
E all’atto dei fatti, altra memoria non conserva Soleto di questo sua grande concittadino che è
stato Matteo Tafuri, se non il suo ritratto visibile nell’adiacente Chiesa Madre, ai piedi della
Madonna della Rosario, con la lunga barba, l’occhio vivace, la fronte aperta, la fisionomia gradevole, insignito con le veste e il berretto rosso di Dottore di Salamanca e di Parigi.

Sara Foti Sciavaliere

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