Muro Leccese: il graffito della Battaglia di Lepanto nel frantoio dei Protonobilissimo
Visitare Muro Leccese vuol dire immergersi in una cultura millenaria, testimoniata da una serie di monumenti che ne narrano la storia: dall’imponente cinta muraria di IV secolo a.C., il cui tracciato delimita ancora una parte del territorio comunale, alla chiesa bizantina di Santa Marina, con il più antico ciclo di affreschi su San Nicola; dai menhir, ancora oggi posti all’incrocio di importanti strade antiche, alla chiesa del Crocifisso e alle cappelle di Santa Maria di Miggiano e di Pompignano, testimonianze più recenti dei luoghi dei casali medievali; dal quattrocentesco Borgo Terra, con Casa Fiorentino, al Convento e alla chiesa dei Domenicani, sorti sul luogo dell’antico cenobio basiliano di S. Zaccaria; dal Palazzo del Principe, con il suo frantoio ipogeo conserva, alle chiese barocche che si fronteggiano sulla Piazza del Popolo.
Il centro del potere del Borgo in età medievale era costituito dal castello del feudatario, l’attuale Palazzo del Principe, risultato di un’evoluzione edilizia avvenuta in almeno tre periodi distinti, collocabili tra il XV ed il XIX secolo, dall’impianto fortificato del XV secolo sino alla trasformazione in residenza signorile nel XVII secolo. Dall’ingresso monumentale ad arco si entra nel Palazzo e si accede nel cortile, dopo aver oltrepassato l’androne in cui è visibile parte del fossato che un tempo cingeva il Borgo. Nelle sale del pianterreno è ubicato il Museo Diffuso di Borgo Terra, con i suoi reperti risalenti all’età messapica e medievale.
Attraverso una scalinata monumentale, si accede agli ambienti del piano nobile, per poi scendere nei sotterranei in cui sono ancora in posto le vasche monolitiche in pietra leccese utilizzate per la conservazione dell’olio d’oliva, prodotto nel frantoio semi-ipogeo del Palazzo, percorrendo un angusto corridoio da cui si entra nella prigione caratterizzate da graffiti ed alcuni disegni a carboncino: iscrizioni, figure umane, animali, imbarcazioni, croci. Tornando in superficie si raggiunge l’ingresso al frantoio oleario semi-ipogeo, pertinente al Palazzo, che ha restituito una testimonianza storica straordinaria.
Costruito nel 1602 per volere della famiglia dei Protonobilissimo, come attesta la data riportata sullo stemma araldico della famiglia, posto sul portale d’ingresso e parte integrante di una rete di trappeti ipogei diffusa in tutto il territorio del comune; nel 1880, infatti, nel territorio comunale erano attivi sette frantoi. Al trappeto, ora come nel passato, si accede tramite una scala a rampa coperta da una volta a botte. È costituito da un grande ambiente coperto con volta a botte, dove sono ancora visibili le basi di calcare per i torchi a due viti alla calabrese – con cui si otteneva olio lampante – e l’alloggiamento del grande torchio a una vite alla genovese per ricavare olio da tavola. Al centro dell’ambiente ancora si conserva la vasca per la molitura con una pietra molare in pietra calcarenitica.
La scoperta più sensazionale è legata a un graffito individuato lungo la parete occidentale del frantoio, raffigurante una città con mura e due torri angolari sormontate da cannoni ed una porta urbica. Le mura racchiudono una chiesa, due colonne ed un alto edificio su cui sventola una bandiera con la scritta “MISSINIA”. Tutt’intorno nel mare una flotta da combattimento, con navi da guerra con vele latine sormontate da croci, solcava le onde mentre il sole, la luna e le stelle indicavano l’inesorabile trascorrere del tempo come quello scandito in un pugno di sabbia di una clessidra. Un cherubino del giudizio e la morte con la falce sovrintendevano alla battaglia dall’esito incerto per la miriade di forze schierate in campo.
L’interpretazione della scena è assai intrigante. È difficile stabilire quanto tempo sia passato tra la costruzione dell’edificio e l’esecuzione della scena. Probabile è l’identificazione della città raffigurata con Messina in Sicilia, e il racconto può fare riferimento ad un importante episodio militare avvenuto tre decenni prima della costruzione del trappeto di Muro Leccese: la scena delle navi della Sacra Lega al comando di don Giovanni d’Austria riunite nel porto di Messina prima della battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571 e che mise fine alla supremazia navale dell’Impero Ottomano.
Un anonimo nachiro (dal greco naùkleros, padrone della nave), il nocchiero che nei mesi caldi governava le imbarcazioni e comandava da ottobre a febbraio i trappitari al lavoro nei frantoi, affidò alla pietra una delle più cruente battaglie combattute tra turchi e cristiani; un episodio della storia così lontano nel tempo eppur così vicino per il terrore che ancora suscitava, di cui lui fu probabilmente testimone e di cui ne avrebbe dato una vivida rappresentazione a trent’anni dallo svolgimento dei fatti.
Oda Calvaruso
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