Vie irremeabile per l’eternità: il “Giardino funebre” di Lecce
Le avvisaglie dell’arte neoclassica a Lecce si registrano nella prima metà dell’800 insieme a una svolta verso forme di linguaggio differenti, ravvisabili in principio nella “città dei morti”, ossia la “funeraria magione”, come viene denominata nell’iscrizione inaugurale ancora leggibile all’interno del portale monumentale d’ingresso del cimitero, ultimato nel 1843 e consacrato l’1 gennaio 1845. “La città dei morti” nasceva e si sviluppava su un piano parallelo a quella ottocentesca dei vivi.
Non è un caso, di fatto, che lo storico e scienziato salentino Cosimo De Giorgio, nel 1888, scelga proprio il Cimitero per fare il punto sullo stato dell’architettura a Lecce, ma con spirito assai critico e giudizio inclemente: “L’architettura è oggi divenuta tra noi un’arte imitativa senza criterio, con poco gusto artistico, e senza veruna ispirazione. Il secolo mercante ha reso di moda uno stile nuovo che potremmo dire commerciale, nel quale tutto viene sacrificato al tornaconto industriale. […]
Volgiamo uno sguardo al cimitero che può dirsi un palio dove hanno corso a gara i nostri architetti per far mostra del loro ingegno e gli scalpellini della loro perizia scultoria. Il cimitero rappresenta la nostra vita artistica degli ultimi quarant’anni. Tutti gli stili architettonici vi sono rappresentati, dall’egizio al barocco, dal greco al romano, dal bizantino al lombardo. Esaminate attentamente quelle tombe. Appena in qualcuna è serbata l’unità di stile e di concetto; in tutte le altre domina un ibridismo che rasenta il ridicolo. Guardate quei cippi, quegli obelischi, quelle cappelle mortuarie, quelle chiese lillipuziane che paion tanti casotti da strada ferrata! Quanto vuoto di arte in tanto affastellamento di pietre!”.
La sorpresa e, soprattutto, l’amarezza del De Giorgi è tanto maggiore in quanto “la babele degli stili” è esibita all’ombra del “più bel giojello di architettura della nostra città”, usando sempre le sue parole. Si riferisce con quest’ultima espressione alla Chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo. Ed è sul fianco sinistro di questa che si apre il cancello che permette di accedere al “Giardino funebre”. È sito nella parte più elevata dove è possibile erigere cappelle, tombe singole con monumenti oppure tombe familiari, interrate e coperte da lastroni calcarei.
Il primo sepolcro che si incontra mettendo piede in questa area del cimitero è anche il più recente, un sarcofago marmoreo color ossidiana, su cui spicca un usignolo posato su uno spartito musicale: è la tomba del tenore Tito Schipa. È considerato una delle maggiori voci della storia dell’opera nel panorama internazionale, dotato di tecnica sopraffina. Il nome d’arte viene dal nomignolo “Titu”, affibbiatogli da ragazzo a causa della statura non eccezionale. Pur debuttando nei teatri italiani tornando spesso nella sua Lecce, ebbe una lunga carriera negli Stati Uniti e morì a New York il 16 dicembre 1965 per un collasso cardiocircolatorio. La salma di Tito Schipa giunse a Lecce il 3 gennaio 1966 in una Santa Croce traboccante di gente. Seguono vialetti e vicoli, proprio come in una città, dove ai palazzi, le case e le botteghe, si sostituiscono le più disparate tipologie di sepolture, secondo il gusto della committenza, in quel bazar stilistico denunciato dallo stesso De Giorgi. I molti epitaffi e una ricca simbologia funeraria accompagnano il visitatore alla scoperta delle vite – a volte prima del tempo, altre giunto all’inesorabile fine dei propri giorni – delle quali rimangono quei sepolcri custodi dei resti mortali e di una memoria che spesso sbiadisce insieme alle foto stinte sulle lapide.
Si raggiunge così una delle vie esterne del cimitero monumentale, ma anche uno dei più omogenei – nel suo generale eclettismo – per le chiari eco al mondo egizio, da cui si attinge a mani piene sia per simbologie che per modelli architettonici e decorativi per cappelle e monumenti funebri, con obelischi e sfingi, tra le immagini più palesi. “D’architettura egizia, dell’architettura che sola fra le antiche e le moderne abbia il merito d’esprimere con il suo robusto e semplice carattere le eternità dello spirito, la virtù di conservare più a lungo i resti dei morti, e di serbare inviolati i segreti delle tombe”. Molte sono le storie che può raccontare la “città dei morti”, anche nel suo silenzio, memorie di esistenze che ormai percorrono le “vie irremeabili dell’eternità” (come recita l’iscrizione sul il fregio posteriore del portale d’ingresso al viale del cimitero), esistenze che possono riemergere ed essere indagate in un’insolita e improbabile passeggiata nel “Giardino funebre”.
Sara Foti Sciavaliere
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