Quando la Terra d’Otranto tremò: il terremoto di Nardò del 20 febbraio 1743
“A’ 20 febbraio 1743 giorno di mercoledì ad ore 23 e mezza sortì un terremoto terribilissimo con avere durata sette minuti in circa, con oscurarsi l’aria sopra venendo della minuta pioggia di che di subito uscì predicando per la città il padre Paradiso Gesuita e nel Duomo il Canonico De Santis, il Vicario diede l’autorità a tutti i preti di confessare colla potestà de casi il che si fece gran frutto per l’anima”, racconta Emanuele M.Buccarelli nelle sue Cronache leccesi riferendosi al sisma che colpì la Puglia meridionale ma che prese la denominazione di terremoto di Nardò.
Quest’ultima di fatto, tra le località colpite, era stata quella che aveva maggiormente patito, soprattutto per le morti registrate, di fatto si tratterebbe addirittura di 150 vittime (seppure il Liber Mortuorum della Chiesa Cattedrale neretina ne registra 112) sulle 180 della Puglia. E ciò nonostante l’epicentro delle tre scosse di terremoto fosse localizzato nel Canale d’Otranto, a circa 50 km dalla costa salentina, ma nella città neretina il terremoto raggiunse il IX-X grado della scala Mercalli.
Un’altra precisazione va fatta anche in riferimento all’orario dell’evento sismico, che le cronache locali, come quella di Buccarelli, lascia immaginare di fatto in piena notte, ma in realtà le 23.30 riportate nelle annotazioni dell’epoca corrispondono alle 16:30 GMT riferite al meridiano di Greenwich.
Le scosse – con una intensità pari a una magnitudo compresa tra 6 e 7 gradi della scala Richter – furono percepite in un’area vastissima: dal Peloponneso all’isola di Malta, dall’Italia meridionale fino a Trento, Venezia, Milano. In Terra d’Otranto, a parte la già citata Nardò (sulla quale torneremo a parlare), si riscontrarono danni gravi in altre quindici località, tra cui Brindisi, Taranto, Francavilla Fontana, Galatina, Leverano, Manduria, Avetrana, Oria, Salice Salentino. Lesioni meno gravi si riscontrano a Lecce, Otranto, Gallipoli e in una decina di altri paesi.
Le testimonianze a Nardò relative a questo terremoto sono diverse: alcune hanno carattere epigrafico-monumentale, come l’iscrizione scolpita sul campanile di San Domenico o le lapidi collocate in diverse chiese (San Domenico, Carmine, Santa Chiara, San Francesco da Paola), mentre altre sono di natura archivistica, quali le visite pastorali o annotazioni di notai coevi. Ritroviamo innanzitutto l’elenco (talvolta incompleto) dei danni agli edifici: la chiesa del monastero di San Francesco da Paola, metà del monastero di Santa Teresa, una parte di quello di Santa Chiara e del Conservatorio della Purità con la cupola della chiesa, la Chiesa della Coronata divisa a metà, il campanile di San Domenico “tutto fracassato”, il Vescovado rovinò pesantemente così come anche il Seminario, crollarono due ordini del campanile della Cattedrale, “le case della Città nella pubblica piazza colle carceri nella parte inferiore tutte tirate a terra”, e non si annoverano naturalmente le costruzione private.
Il terremoto fu accompagnato da altri fenomeni, causa di stupore e sgomento tra gli abitanti. Non solo la terra tremò per sette minuti, ma le testimonianze del tempo raccontano dell’aria infuocata, il suolo particolarmente caldo e la manifestazione di un uragano. “Nel giorno di mercoledì venti febbraio, giorno più tosto estivo che d’inverno, a circa ore 23 nell’occaso si sucitò un vento gagliardissimo che fece stupire ogn’uno ed intimorire, poiché pareva che per l’aria correvano centinara di carrozze unite, tale era lo strepito, s’offuscò l’aria e pareva che mandasse fuoco, l’acqua ne pozzi saltava e s riconcentrava. Si oscurò il sole, e sopra le 23 traballò per causa d’un tremuoto Nardò, tornò a traballare, e finalmente muovendosi la terra à guisa dell’acqua che ferve nella pignatta, operò che cascasse dalle fondamenta Nardò.” Così raccontava nei suoi appunti il notaio Oronzo Ippazio De Carlo.
Le stesse fonti locali parlano però di eventi prodigiosi. La statua in lecciso di San Gregorio Armeno posta sul Sedile, invocato che fu il santo protettore dal popolo adunato in piazza, “si vidde con la mano sinistra far segno al vento di ponente che fiatava che si quietasse. Le altre statue di San Michele e Sant’Antonio cascarono.” L’uragano che
si era scatenato si placò e soprattutto le vittime, benchè molte, non furono davvero tante in rapporto ai danni.
Da quel febbraio 1743 ha avuto origine la Festa del Patrono S. Gregorio Armeno che i neretini rievocano come ringraziamento al santo per essere rimasti “illesi” da tale sciagura. In seguito a quell’evento, inoltre, venne sistemata la piazza con la ricostruzione del Palazzo di Città e la realizzazione della Guglia dell’Immacolata. Quest’ultima fu innalzata proprio in segno di ringraziamento per i limitati pericoli provocati dal terremoto.
Si parla non solo di scosse telluriche ma anche di un violento tsunami come conseguenza. Un fenomeno che pare si produsse con maggiore intensità a sud di Otranto, in corrispondenza di Torre Sant’Emiliano, mentre sul litorale brindisino gli effetti si ebbero a Torre Santa Sabina e nel porto interno della città di Brindisi ci fu un improvviso abbassamento del livello del mare. A tal proposito nella Cronaca dei Sindaci si legge: “è stato così spaventoso che ritirandosi il mare, faceansi vedere aperture della terra, ed il molo di porta Reale diviso in tre parti” (Cagnes e Scalese 1743).
Secondo gli studi del prof. Sansò dell’Università del Salento la quota massima raggiunta dall’onda generata dal maremoto a Brindisi sarebbe stata di circa un metro e mezzo, rispetto agli undici metri di altezza calcoli nei pressi dell’epicentro. In generale comunque gli effetti di questo tsunami devono essere stati di fatto limitati, sia poiché la costa compresa tra Brindisi e Santa Maria di Leuca, direttamente interessata dal fenomeno, all’epoca era quasi
completamente disabitata per via delle numerosi paludi costiere e della malaria, sia perché la morfologia della costa, in prevalenza costituita da falesie, ha determinato l’inondazione di una fascia litoranea piuttosto ridotta.
Le memorie brindisine ricordano però il terremoto che qui non durò che per un paio di minuti quale causa di numerosi crolli di abitazioni e chiese, edifici per lo più in condizioni di degrado o comunque mancanti di manutenzione. Maggiormente danneggiati furono la chiesa di San Giovanni al Sepolcro, il Palazzo del Seminario, dove crollò la facciata, e l’Episcopio, dove vennero giù alcune stanze. Anche l’antica Cattedrale romanica subì gravi danni e fu dichiarata pericolante, decidendo perfino di smantellare il tetto e di demolire le navate della chiesa, lavori
che nelle settimane successive procurarono però l’ulteriore indebolimento dei muri, a tal punto che metà della struttura “crollò fragorosamente” a mezzogiorno del 20 giugno di quello stesso anno, e alle quattro della notte successiva cadde anche il campanile.
La Basilica dedicata a San Giovanni Battista fu poi ricostruita dall’architetto leccese Mauro Manieri e completata nel 1750: in verità, alcuni studiosi sarebbero dell’opinione, in base a un’attenta analisi di fonti documentali ed epigrafiche, che il terremoto abbia solo offerto l’occasione per adeguare la cattedrale al gusto del secolo, ma non l’avrebbe distrutta. Valse anche Brindisi la convinzione di un intervento prodigioso capace di tutelare i cittadini da danni più gravi, la tradizione in questione si lega alla venerazione della Madonna Immacolata della chiesa di San Paolo: il racconto popolare parla del ritrovamento della statua sull’ingresso della chiesa con gli occhi rivolti al cielo e le mani aperte – originariamente erano congiunte – quasi stesse implorando Dio di fermare il cataclisma.
Come a Nardò e a Brindisi, pure in altre comunità del Salento si volle credere alla protezione dei propri santi tutelari: a Mesagne si ringraziò Beata Vergine Maria del Carmelo, a Latiano Santa Margherita di Antiochia, a Francavilla Fontana la Madonna della Fontana, a Lecce e Campi Salentina Sant’ Oronzo, ad Avetrana San Biagio, a Oria san Barsanofio, a Taranto l’Immacolata Concezione che da allora divenne la seconda patrona della città, solo per fare alcuni esempi più noti.
Altra caso simile da annoverare più nel dettaglio può essere quello accaduto a Campi Salentina. Il canonico Don Sante De Santis da Lecce, nella sua opera “I Martiti salentini Oronzo, Giusto e Fortunato” così descrive quei fatti: “La notte del 19 febbraio 1743 suscitò un grandissimo vento sciroccale, che pareva inabissasse il mondo, e durò fino alle 22 del dì 20 febbraio e cessato, in quell’ora, in un subito si annerì l’aere, e divenen a colore di piombo, cosa che creava orrore e spavento, e poi verso le ore 23 e mezzo si accese l’are in tal maniera, che pareva una fiamma, e in quel giorno correva il mercoledì precedente il giovedì grasso: nello stesse tempo venne una scossa di terremoto così orribile che durò lo spazio di cinque minuti, che si scatenavano gli edifizi dalle loro fondamenta, le pareti si toccavano l’una con l’altra, e fu si grande la scossa che rimasero tutte le fabbriche lesionate e guaste; cessata la prima scossa, replicò la seconda e poi la terza, sempre però con veemenza; ma lode al nostro Santo [Oronzo n.d.r], non sortì danno veruno ai cittadini nè poco rovinarono edifizi”.
In quelle stesse circostanze, si notò che l’effige di Sant’ Oronzo dipinta da Carlo Rosa da Bitonto, custodita sull’altare maggiore dell’omonima cappella di fronte alla Collegiata, abbassò miracolosamente la mano sulla sottostante città in segno di protezione. Erano presenti al fatto prodigioso tutto il clero e il popolo genuflesso in preghiera a recitare le litanie.
E a proposito di Sant’ Oronzo e miracoli torniamo a Lecce – alla quale si riferiva appunto il brano che ha introdotto questo post – e qui il santo protettore fu ritenuto autore di un’altra prodigiosa intercessione, dopo quella per la peste del 1656. I leccesi vollero appunto nel 1743 ringraziare il santo martire per lo scampato pericolo del terremoto, poichè la città e i suoi abitanti non ebbero a soffrire della calamità come accadeva invece tutt’intorno in Terra d’Otranto. Inevitabilmente quindi si urlò al miracolo e i devoti grati al loro santo tutelare vollero una tela a
imperitura memoria. È la tela votiva conservata nella Basilica di Santa Croce, nel settecentesco altare di Sant’Oronzo, collocato a metà della navate di destra.
Nella parte inferiore del dipinto a olio, si srotola un cartiglia sul quale si descrivono questi fatti
nei versi in vernacolo leccese qui apposti , ritenuti anche tra le testimonianze più antiche della
letteratura dialettale del posto:
“1743 / FOI S. RONZU CI NI LEBERAU / DE LU GRA TERRAMOTU, CI FACIU / A BINTI DE FREBARU:
TREMULAU / LA CETATE NU PIEZZU, E NO CADIU. / IDDU, IDDU DE CELU LA GUARDAU, / E
NUDDU DE LA GENTE NDE PATIU. / È RANDE, SANTU! MA DE LI SANTUNI / FACE RAZIE, E
MERACULI A MIGLIUNI”
Sara Foti Sciavaliere
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